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Le incisioni: il pensiero dell'artista - Presentazione delle opere della mostra "Scaglie di Liguria" (clicca qui per leggere)

Ho voluto utilizzare le tecniche dell’incisione che ho appreso durante gli anni dell’Accademia, sotto la guida del prof. Ottria, perché mi è sembrato che queste si piegassero meglio a cogliere le più varie vibrazioni tonali del paesaggio ligure. Ma quello che più mi preme precisare è che queste opere sono il risultato finale di un lungo e faticoso processo di lavorazione che richiede particolari qualità tecniche ed artistiche, ma anche tanta e tanta pazienza. Per quanto riguarda le tecniche, ho utilizzato la tecnica dell’acquaforte, dell’acquatinta e della puntasecca. L’acquaforte è forse la più conosciuta, le cui possibilità creative sono state sviluppate da grandi pittori del passato: il Parmigianino, gli artisti dei Paesi bassi (Rubens, van Dick e Rembrandt), Tiepolo e Canaletto a Venezia, Francisco Goya, gli impressionisti, i macchiaioli toscani, van Gogh; molti artisti contemporanei come Picasso e Morandi.
L’acquaforte è un’incisione in cavo: l’inchiostro viene fatto penetrare nei solchi che, grazie alla pressione del torchio lo cederanno alla carta. Per fare questo si utilizza una matrice di metallo, generalmente di zinco, sulla quale s’incidono i solchi utilizzando un acido, quasi sempre l'acido nitrico, ma da me sostituito con il meno pericoloso solfato di rame. Questa lastra viene incerata e affumicata. In questo modo si protegge la superficie della matrice dall’azione dell’acido che potrà “mordere” il metallo solo nei punti in cui l’artista avrà asportato la cera con una punta, realizzando così il segno. Per quest’operazione non c’è bisogno di alcuna forza ed è per questo motivo che l’artista può affrontare l’acquaforte con la stessa scioltezza con cui disegnerebbe a china su un foglio di carta.
Proprio perché la fatica di scavare il metallo è lasciata all’acido, si possono ottenere con l’acquaforte intrecci di segni finissimi, curve sinuose e morbide, vibrazioni tonali di segni e punti. L’artista ha a disposizione due mezzi per variare la dimensione e lo spessore dei segni: il primo consiste nel disporre di punte di diversa foggia e grandezza per asportare più o meno cera dalla lastra. Il secondo racchiude in sé il vero e proprio mestiere dell’incisore e consiste nella preparazione dell’acido che può essere più o meno diluito, e nella variazione dei tempi di esposizione della matrice agli effetti dell’acido che viene chiamata “morsura”.
Attraverso le diverse “morsure” i segni incisi, oltre a variare per larghezza, presenteranno anche differenti profondità, cui corrisponderà una minore o maggiore quantità di inchiostro che si depositerà sulla carta.
Infine, si passa alla stampa vera e propria. Si rimuove la cera con solvente e si procede ad inchiostrare la lastra con un tampone, in modo da far penetrare bene l’inchiostro nei solchi. L’eccedenza di inchiostro viene asportata con una garza speciale: è questa una fase delicatissima che incide sul risultato finale. Una volta pulita, la lastra viene fatta passare nel torchio con la carta, precedentemente inumidita. In questo modo la carta, resa morbida ed elastica, potrà aderire alla lastra, penetrare nei solchi e “risucchiare” l’inchiostro che vi è contenuto. La copia stampata verrà messa ad asciugare e posta sotto un peso. L’operazione di pulitura si ripete ad ogni copia.
Una variante dell’acquaforte è l’acquatinta, che, sempre grazie alla “morsura” di un acido, consente di ottenere fondi e campiture, cioè toni continui che possono stendersi sotto il segno di acquaforte o vivere autonomamente. Questa volta, però, s’interviene sulla lastra riscaldata cospargendola con polvere di bitume da me sostituita con la polvere di uno spray colorato, le cui minuscole gocce aderenti al metallo sono in grado di resistere all’azione dell’acido. L’artista maschera con un’apposita vernice le zone che non dovranno essere “morse” e quindi immerge la lastra in un bagno di acido. Come nell’acquaforte, anche qui ci saranno diverse “morsure”. Per questo, l’acquatinta consente di ottenere una ricca gradazione di chiari e di scuri, e la resa di delicati trapassi luminosi.
Nella puntasecca l’artista incide direttamente il metallo con una punta di acciaio, che genera, però dei segni molto diversi da quelli dell’acquaforte; infatti, la punta, oltre ad incidere, sposta il metallo a lato dei solchi, generando le cosiddette “barbe”: queste, in fase di stampa, anche a lastra perfettamente pulita, tratterranno l’inchiostro e cederanno alla carta un segno più morbido, irregolare, e quasi velato.

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